L'espansione globale prosegue. Africa decisiva: opportunità e criticità

Scenari economici Confindustria n° 31 - Dicembre 2017.

In sintesi

L’espansione globale prosegue. La velocità è la più alta dal 2010 ed è in accelerazione sul finire del 2017.

Proseguirà robusta nel prossimo biennio. Solo incidenti di percorso, che materializzino uno dei tanti rischi geopolitici che affollano il panorama internazionale in questi tempi, potrebbero farla deragliare.

La sua solidità è basata soprattutto sul ciclo mondiale degli investimenti, che è partito nell'ultimo scorcio del 2016, come segnalato dal CSC fin da marzo.

Era l’anello mancante per l’uscita economica dalla crisi. Una volta innescato non si ferma in breve tempo e tende ad autoalimentarsi, generando il reddito e la domanda che giustifica nuovi investimenti.

D’altra parte, la costellazione di condizioni per investire è molto propizia: la capacità produttiva è satura, i margini discreti, le attese di maggiore domanda molto positive, il costo del capitale (di debito e di rischio) ai minimi storici. La rivoluzione tecnologica nel segno della digitalizzazione spinge, poi, le imprese a modernizzare gli impianti. Sono fattori destinati a durare a lungo. Il ritmo della crescita mondiale superiore alle attese è dovuto alla propulsione che il settore manifatturiero è tornato a fornire, nell’insieme dell’economia mondiale e in quasi tutti i maggiori paesi avanzati ed emergenti. Anche questo traino tende ad autoperpetuarsi, attraverso gli impulsi  che vengono  trasmessi mediante le catene globali del valore.

La produzione e la domanda di beni di investimento e l’attività manifatturiera sono forti attivatrici di scambi internazionali, per come sono organizzate le filiere e per la specializzazione di alcune economie nella fabbricazione di macchinari e impianti (tra queste spiccano Germania e Italia). 

Questa attivazione spiega larga parte del più forte slancio del commercio mondiale registrato quest’anno, assieme al contributo aggiuntivo della maggiore crescita della domanda interna cinese, che è stata stimolata con misure espansive in vista del Congresso del Partito Comunista che si è tenuto in ottobre.

Mentre quest’ultima è destinata a rientrare, ora che l’appuntamento politico è passato, l’attivazione da investimenti e manifatturiero si prolungherà nel biennio di previsione. Inoltre, a sostegno della più vivace dinamica degli scambi giocano sia la robusta crescita nell’Euro area, dove massima è l’integrazione tra le economie e fitta la rete di commerci e filiere, sia l’aumento del potere d’acquisto dei paesi esportatori di materie prime, grazie alla significativa risalita delle quotazioni delle commodity.

Il commercio mondiale, poi, fa da volano alla ripresa globale, distribuendo gli impulsi espansivi tra i diversi paesi, che stanno partecipando sempre più coralmente e con ritmi che si uniformano verso l’alto.

L’Italia partecipa pienamente al maggiore impeto della crescita globale, da un lato attraverso l’ottima perfomance dell’export (che da alcuni anni sta guadagnando quote di mercato), dall’altro attraverso l’incremento degli investimenti (incentivati dalle lungimiranti misure governative).

È riuscita a restringere, ma non a chiudere, il divario nell’incremento del PIL con il resto dell’Euro area. Resta ampia la distanza dal picco pre-crisi.

Nel propiziare, prima, e nel mantenere stabile, poi, il contesto positivo le Banche centrali hanno giocato e giocheranno un ruolo decisivo, con politiche monetarie straordinariamente lasche per avviare la ripresa e con una normalizzazione graduale, paziente e prudente per consolidarla. 

La FED continuerà passo dopo passo ad alzare i tassi e a ritirare la liquidità iniettata con l’acquisto di titoli.

La BCE inizierà a diminuire gli acquisti e li manterrà almeno fino a tutto il 2018, mentre solo nel 2019 ritoccherà i tassi. Le conseguenze sul costo del denaro, però, si faranno sentire prima: i mercati tendono ad anticipare gli effetti.

Quali ricadute ci saranno sull’economia dal denaro non più a costo nullo o quasi? Limitate, perché questo sarebbe il riflesso della ritrovata forza dell’economia: il paziente, cioè, non avrebbe più bisogno della terapia intensiva.

Potrebbero, invece, risentirne i mercati finanziari, che hanno quotazioni “ricche”, per usare un eufemismo coniato dalla Presidente FED, Janet Yellen. Non è una bolla, ma una sopravvalutazione giustificata, appunto, dai tassi a breve così bassi. Una ritirata scomposta delle quotazioni azionarie e obbligazionarie creerebbe sicuramente turbolenze, ma non tali da far deragliare l’economia mondiale, visti i suoi solidi fondamentali. 

Uno di questi è l’inflazione inconsistente, che permette di pilotare il rialzo del costo del denaro in modo molto dosato. L’aumento straordinariamente contenuto dei prezzi al consumo ha, come già più volte segnalato, origini sia congiunturali sia strutturali. 

Tra quelle congiunturali e che regrediranno, lasciando avvicinare l’inflazione all’obiettivo delle Banche centrali, ci sono la forte e prolungata caduta dei prezzi delle materie prime, l’ampio bacino di persone senza lavoro o sottoccupate e le radicate, dopo anni di crisi, aspettative di bassa dinamica dei prezzi.

Concorrenza globale e rapido e pervasivo progresso tecnologico sono i freni che agiscono strutturalmente sulla formazione dei prezzi, anche di quello del lavoro. Formano una sorta di tetto all’aumento dell’inflazione. 

L’inflazione persistentemente bassa ha alcune importati ripercussioni sul sistema economico: tiene alti i tassi di interesse reali, rende più complesso il rientro dalle posizioni debitorie (nel pubblico come nel privato), impone alle imprese di non trasferire a valle gli aumenti dei costi, mantenendo così sotto pressione i margini delle aziende. 

La forza della crescita globale sta ridimensionando l’importanza dell’incertezza politica sulla stessa congiuntura economica. Nonostante i recenti risultati elettorali rendano più complicata la governabilità perfino in Germania, domanda e produzione continuano ad avanzare apparentemente imperterrite.

Una spiegazione è che il peso dell’incertezza è più alto nelle fasi di recessione o stagnazione, quando si aggiunge a difficoltà oggettive e non solo percepite, e là dove ci sono altre debolezze istituzionali (inefficienza della burocrazia, lentezza della giustizia, e così via).

D’altra parte, l’instabilità politica e le misure demagogiche prese per motivi di consenso seminano una pianta i cui frutti maturano nel medio-lungo periodo, operando attraverso l’abbassamento del potenziale di crescita, anche per la mancata approvazione di quelle riforme che, al contrario, tale potenziale elevano. 

Questo si applica particolarmente all’Italia, sia come spiegazione delle origini antiche del suo male di lenta crescita sia come rischio di non perseverare nella prossima legislatura lungo le linee di politica economica e di cambiamento faticosamente intraprese negli ultimi anni.

In questo senso, le prossime elezioni politiche si presentano come un test molto rilevante e disegnano per il Paese una biforcazione tra il proseguire lungo il cammino delle riforme o non far nulla (che, in termini relativi, vuol dire arretrare), se non proprio tornare indietro.

Quel che è certo è che la chiarezza degli obiettivi e la semplicità degli strumenti, perseguiti e adottati con coerenza per un periodo protratto, incoraggiano gli investimenti e i consumi perché forniscono un ancoraggio alle aspettative positive.

Nel quadro internazionale, infine, ci sono due rischi non incorporati nelle previsioni del CSC. Un maggior rincaro del petrolio e il rafforzamento dell’euro.

Un petrolio più caro, se deriva dalla robustezza della domanda mondiale, come sarebbe il caso nel prossimo biennio (non c’è pericolo di scarsità d’offerta, ma c’è contingentamento, con il rinnovo del taglio OPEC), è segnale di salute e quindi non deve preoccupare.

Tuttavia, non può mancare di ricomporre i prezzi relativi e le ragioni di scambio e quindi la domanda finale, a favore dell’export (per il maggior reddito reale dei paesi esportatori) e a discapito di consumi e investimenti (data l’erosione del potere d’acquisto delle famiglie e dei margini delle imprese).

Il rafforzamento dell’euro, invece, opera in direzione opposta, penalizzando le vendite all’estero e accrescendo la capacità di acquisto interna, con impatto netto negativo. Il CSC ha stimato che, rispetto allo scenario base, un cambio nominale effettivo dell’euro più forte del 5% comporta un minor PIL italiano di 3 decimi di punto percentuale nell’arco di ventiquattro mesi.

Considerati i dati nel frattempo usciti, i provvedimenti della Legge di bilancio e le prospettive internazionali migliori, il CSC rivede verso l’alto la stima di crescita del PIL dell’Italia nel 2018 all’1,5% (dall’1,3% di settembre) e si attende un rallentamento contenuto nel 2019, all’1,2%. 

Permangono rischi al rialzo, legati in particolare a una ripartenza più forte degli investimenti pubblici e a un miglioramento del credito a sostegno di quelli privati. Inoltre, l’export potrebbe avere una dinamica superiore alle attese grazie alla specializzazione italiana. Vi è infine un aspetto statistico che riguarda l’andamento delle scorte, che dopo il calo estivo, a indicazione di una dinamica della domanda ben più forte dell’offerta, potrebbero rimbalzare a fine anno, dando un contributo positivo al PIL che si evidenzierebbe soprattutto nel 2018. D’altronde gli indicatori qualitativi finora disponibili puntano a una variazione nel quarto trimestre che potrebbe rivelarsi superiore al profilo stimato dal CSC. 

Viene rivista all’insù anche la dinamica occupazionale. La performance del mercato del lavoro, infatti, supera le attese e conferma che il recupero in atto non lascia indietro i lavoratori. L’occupazione, infatti, è l’unica variabile economica insieme all’export ad aver superato il picco pre-crisi. 

Ciò non significa che il peggio sia alle spalle: a 7,7 milioni di persone manca ancora lavoro, in tutto o in parte. 

Soprattutto allarmante è la questione della bassa occupazione giovanile che, diversamente dal passato, si trasforma in emigrazione. L’uscita di giovani dal Paese, molti dei quali diplomati e laureati, è proseguita anche nel 2016 e con flussi accresciuti significativamente: 61mila tra i 18 e i 39 anni, con +19,1% sul 2015, mentre il totale è stato di 115mila, con +12,0%. I laureati di ogni età che se ne sono andati sono stati 25mila. 

Il recupero dell’economia italiana continua a non ricevere il supporto del sistema bancario: i prestiti, anche tenuto conto della cessione delle sofferenze, rimangono fermi, se non in retromarcia. Mentre i lunghi tempi di pagamento, sia del pubblico sia tra privati, determinano un fabbisogno di capitale circolante elevato in modo anomalo rispetto agli standard internazionali. 

D’altra parte, le imprese hanno ben colto che le sfide del “nuovo normale” richiedono un salto culturale nella gestione aziendale e l’adozione di strategie rivolte alla crescita quantitativa e qualitativa. Lo straordinario successo dei contratti di Rete, che hanno ormai assunto dimensioni tali da essere macroeconomicamente rilevanti, testimonia quanto questa presa di coscienza si stia diffondendo, grazie agli stessi risultati che le Reti danno, in termini di maggiore incremento sia degli occupati sia del fatturato.

Infine, i conti pubblici italiani proseguono lungo il sentiero del risanamento e il debito pubblico ha iniziato a ripiegare. 

Il fatto che l’insieme dei debiti pubblici e privati sia molto contenuto in rapporto al PIL rispetto a tutte le altre maggiori economie (ad esclusione della Germania) e che l’Italia sia, attraverso il surplus di bilancia corrente, fornitrice netta di risparmio alle altre nazioni non deve essere un alibi per interrompere l’azione di revisione della spesa e di ridisegno dell’intervento dello Stato, in modo da aumentarne efficacia ed efficienza e sottrarre il Paese dal rischio di crisi di fiducia destabilizzanti. 

Tra le sfide di medio-lungo periodo per l’Italia ha un posto importante la sua relazione con l’Africa.

Il continente ha di fronte opportunità e criticità senza precedenti nella sua storia.

Nei primi tre lustri del nuovo millennio la sua economia è cresciuta in modo sostenuto lasciandosi alle spalle un quarto di secolo di stagnazione e arretramento nel reddito pro-capite.

Diversamente da quello che è successo negli emergenti asiatici, non è stata l’industrializzazione a trainare lo sviluppo, ma la transizione dall’agricoltura al terziario. Ciò consente ad alcune economie africane di essere meno dipendenti dalla domanda estera. 

Senza industria, però, la produttività cresce più lentamente e non è facile prevedere quale modello economico possa garantire un ulteriore e prolungato sviluppo.

Giocherà un ruolo cruciale la demografia. Con 1 miliardo e 256 milioni di abitanti (il 17% della popolazione mondiale) l’Africa è già un gigante. E lo sarà sempre di più nei prossimi decenni: nel 2050 la popolazione sarà esplosa a 2 miliardi e 528 milioni e, demograficamente, un quarto del pianeta sarà africano. 

Se in questo stesso lasso di tempo, assieme al dividendo del forte incremento degli abitanti, il PIL procapite raggiungesse quello odierno della Cina, l’economia africana avrebbe una stazza cinque volte superiore a quella di oggi. Nel medesimo periodo, il PIL dei paesi avanzati crescerà poco più di due volte.

Tutto ciò fa comprendere quali questioni ambientali e migratorie si palesano e rende evidente che le relazioni economiche e politiche con l’Africa sono e saranno decisive. 

L’Italia ha ulteriori ragioni (geografiche, demografiche e geopolitiche) per rafforzarle. Deve farlo insieme ai principali alleati europei e proponendosi come attore principale nella partnership Africa-UE, rinnovata a fine novembre 2017 al summit di Abidjan. Anche perché Stati Uniti e Cina, che da tempo perseguono con efficacia chiare strategie per l’Africa, rappresentano protagonisti con i quali è difficile competere senza l’intervento UE.

Confindustria propone un piano italiano per l’Africa che integri gli obiettivi europei e del quale essa stessa sarebbe primattrice. Le principali azioni del piano sono: la formazione linguistica, tecnica e manageriale di giovani africani all’interno di aziende italiane; la diffusione di scuole superiori per dirigenti industriali e bancari africani; il finanziamento di start up industriali nei paesi del continente; l’utilizzo dell’immigrazione africana in Italia come agente di conoscenza e sviluppo dei mercati locali.

In questo modo l’Italia si propone come ponte tra l’Europa e l’Africa, un ruolo che naturalmente può giocare con successo.

 

Il primo capitolo del volume è disponibile al seguente link: capitolo 1.

Le slide del convegno di presentazione sono disponibili ai seguenti link: Domenico Fanizza, Adolfo Laurenti, Luca Paolazzi, Sergio Tommasini.

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