Le sfide della politica economica

Scenari economici Confindustria n°27 - Settembre 2016.

In sintesi

Nel corso dell’estate lo scenario è ulteriormente peggiorato.

Le tensioni geopolitiche non si sono mitigate. Al contrario, sono state intensificate dal fallito golpe in Turchia, dal risultato shock delle elezioni politiche in un Land tedesco e dai nuovi attentati terroristici.

Sullo sfondo proseguono le ondate migratorie, con il ripetersi di tragici esiti e gli inediti affollamenti di piazze e parchi cittadini.

I movimenti nazionalistici e populistici ne traggono nuova linfa mentre la voglia di spesa si affievolisce.

Dopo la storica e clamorosa Brexit, che rimarrà a lungo una notevole fonte di insicurezza, e il fallito tentativo di formare un governo in Spagna, l’autunno rimane denso di appuntamenti che costituiscono altrettante incognite: il referendum xenofobo ungherese, la ripetizione delle presidenziali in Austria e l’elezione del futuro inquilino della Casa Bianca in USA, la consultazione popolare in Italia sulla nuova Costituzione. Nel 2017 ci saranno i passaggi cruciali delle presidenziali in Francia e delle politiche in Germania e nei Paesi Bassi.

L’andamento dell’economia non solo interagisce strettamente e nei due sensi con tale quadro politico incerto, ma di per sé si rivela più fragile dell’atteso.

Una serie di fattori sta concretizzando, anche nei paesi considerati più dinamici, la temuta stagnazione secolare: rallentamento e invecchiamento demografici, minori guadagni di produttività generati dalle attuali innovazioni, dispersione di capitale umano a causa dell’alta disoccupazione, ridotto tasso di accumulazione del capitale, rallentamento fisiologico della Cina, strisciante protezionismo.

La crescita mondiale di produzioni e commerci ne risente significativamente. Ante-crisi il PIL aumentava del 3,2% annuo e gli scambi di beni del 6,8%. Ora non vanno oltre il 2,4% il primo e l’1,8% i secondi.

Questo significa che nessuno può far conto sul traino degli altri per uscire dal proprio stallo e che tutti devono impegnarsi, in modo coordinato, a realizzare nuove politiche per la crescita. Ciò vale in particolare per l’Eurozona.

Nel contesto di accresciuta turbolenza globale l’economia italiana presenta una debolezza superiore all’atteso. La risalita del PIL si è arrestata già nella scorsa primavera. Gli ultimi indicatori congiunturali non puntano a un suo rapido riavvio, piuttosto confermano il profilo piatto.

Il CSC semplicemente incorpora nelle nuove previsioni i dati recenti. I rischi si mantengono verso il basso. La crescita indicata per il 2017, sebbene già del tutto insoddisfacente, non è scontata e va conquistata.

L’evoluzione recente fa riemergere con forza la questione del divario di crescita tra l’Italia e gli altri paesi europei, che pure in media non sono brillanti.

Prima, durante e dopo la Grande recessione (che nel Paese è stata più intensa e lunga) si è accumulato un distacco molto ampio: tra il 2000 e il 2015 il PIL è aumentato del 23,5% in Spagna, del 18,5% in Francia e del 18,2% in Germania, mentre è calato dello 0,5% in Italia. Le dinamiche in corso sentenziano che le distanze stanno aumentando ancor più rapidamente.

Sul piano dell’avanzamento economico, il Paese ha alle spalle un quindicennio perduto. Il tempo sprecato si allunga notevolmente se si considera il prodotto per abitante, indicatore perfettibile ma significativo di benessere.

Ai ritmi attuali di incremento del prodotto, l’appuntamento con i livelli lasciati nel 2007 è rinviato al 2028 mentre non verrà mai riagguantato il sentiero di crescita che si sarebbe avuto proseguendo con il passo precedente, pur lento.

La crisi, infatti, ha comportato un netto abbassamento del potenziale di crescita italiano, che nelle stime dell’FMI è sceso dall’1,2% allo 0,7%. Oltre ad aver diminuito l’utilizzo della capacità produttiva ancora esistente.

Per ottenere una crescita maggiore, dunque, occorre lavorare su due fronti: quello della rimozione degli ostacoli che intralciano il pieno sfruttamento del potenziale che c’è e quello dell’ampliamento di questo potenziale.

L’elenco degli ostacoli comprende il credito (la cui contrazione sta proseguendo), l’edilizia (ancora in stallo) e la minore competitività (causata dallo sganciamento del costo del lavoro dalla produttività).

L’ampliamento del potenziale parte dall’individuazione delle cause del suo restringimento: produttività ferma e declino della popolazione in età di lavoro.

L’una e l’altra richiedono più investimenti, in capitale fisico e capitale umano. Nei beni strumentali, nell’innovazione e nelle persone (specie giovani e povere).

Gli investimenti privati, in particolare, sono penalizzati in Italia. Alla ragione comune in questa fase a tutti i paesi (le scarne prospettive della domanda) si sommano quelle tipiche del Paese: burocrazia, norme complesse e poco chiare, giustizia lunga, tassazione elevata, infrastrutture carenti, istituzioni del mercato del lavoro, concorrenza frenata.

Su molte di esse sono intervenute importanti riforme nell’ultimo biennio. In gran parte attendono piena attuazione e la trasformazione in comportamenti.

Quando vengono attuate, i risultati non tardano a concretizzarsi. Un chiaro esempio è fornito dal Jobs Act accompagnato dalla temporanea riduzione della contribuzione sociale a carico delle imprese. Quasi i quattro quinti degli oltre 370mila posti di lavoro aggiuntivi creati dall’inizio del 2015 a metà 2016 sono con contratti a tempo indeterminato.

È vitale proseguire e anzi approfondire il processo riformista. Ciò dipende dall’esito del referendum sulle modifiche alla Costituzione, le quali migliorerebbero la governabilità del Paese e aiuterebbero a far cadere alcuni degli impedimenti agli investimenti elencati sopra.

Infine, gli investimenti sono penalizzati dalla bassa redditività. Che è ai minimi storici, mentre è ai massimi la quota del lavoro sul valore aggiunto per effetto di una dinamica salariale che nel settore privato (e soprattutto nel manifatturiero) fino al 2015 è stata indifferente all’intensa recessione e al grave aumento della disoccupazione. Al contrario, in Spagna dal 2012 si è iniziato a considerare nella contrattazione le condizioni occupazionali.

Tutto ciò avvilisce la propensione a investire e a innovare delle imprese italiane, propensione che spicca nel confronto europeo .

L’urgenza di misure a favore degli investimenti e che spronino la produttività è ribadita dalla sostanziale conferma delle previsioni CSC di bassa crescita: +0,7% il PIL nel 2016 e +0,5% nel 2017.

Tanto più che si sta esaurendo l’effetto favorevole dei fattori esterni una tantum (svalutazione dell’euro, dimezzamento del prezzo del petrolio, calo dei tassi); anzi, quei fattori stanno in parte tornando indietro.

Il deterioramento della performance dell’economia italiana rispetto alle stime della scorsa primavera riduce ulteriormente gli spazi di manovra per la politica di bilancio. Ciò impone che le poche risorse disponibili siano concentrate sulle voci che hanno maggiore efficacia nel rilanciare la crescita: sostegno agli investimenti pubblici e privati, scambio salario-produttività, patrimonializzazione delle imprese.

La flessibilità europea, che necessariamente e correttamente va rafforzata per supportare gli sforzi sul piano delle riforme ed evitare una stretta insopportabile, va oculatamente impiegata. Solo così la crescita può essere effettivamente rilanciata, la fiducia rinsaldata e il cammino verso la sostenibilità dei conti pubblici prontamente ripreso.

Il report completo è disponibile al seguente link: report completo.

Le slide di presentazione dell'evento sono disponibili ai seguenti link: slide Paolazzi, slide Lusignani, slide Siviero.

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