LA RIPRESA GLOBALE SI CONSOLIDA. ITALIA A RUOTA. EUROPA: INTEGRAZIONE O DISAFFEZIONE

Scenari economici Confindustria n° 29 - Giugno 2017.

In sintesi

La svolta nello scenario globale, prefigurata sei mesi fa, è stata confermata dai dati. Ma non mancano importanti novità, che rammentano anche condizioni di fragilità e rischi.

Infatti, alcune delle variabili indicate dal CSC come segnali di cambiamento sono andate al di là delle aspettative, altre si sono mosse meno o addirittura con segno opposto all’atteso.

Tra le grandezze che vanno meglio c’è il commercio mondiale, che aumenta più rapidamente. Un fattore molto positivo che origina dall’ampia coralità della ripresa internazionale; alla quale partecipano insieme, come non accadeva da tempo, paesi avanzati ed emergenti. Come in un’orchestra l’aumentare del numero degli elementi fa salire la potenza della musica, così la coralità rafforza la ripresa perché moltiplica gli impulsi espansivi che vengono trasmessi reciprocamente proprio attraverso il canale estero: le importazioni di un paese sono esportazioni dell’altro, e viceversa.

A rinvigorire gli scambi internazionali c’è, poi, l’avvio di un nuovo ciclo globale degli investimenti. Era l’anello mancante nell’uscita dalla crisi, genera maggiore domanda e aumenta il potenziale di crescita, prolungando la fase espansiva. 

La fiducia è ulteriormente salita, come mostrano le quotazioni più elevate delle borse e, soprattutto, l’ottimismo delle imprese, tornato ai massimi dal 2005 nelle economie avanzate.

L’inflazione si è allontanata, come previsto, dai minimi pericolosi di un anno fa. Al netto dei prezzi energetici e alimentari rimane, però, bassa: la frenano concorrenza globale, rapide innovazioni e ampio sottoutilizzo del capitale umano.

Tra le variabili che hanno avuto un mutamento meno ampio dell’atteso ci sono le politiche di bilancio che hanno sì abbandonato, complice il ciclo elettorale europeo, l’orientamento di marcata riduzione dei deficit, ma ancora non sostengono apertamente la domanda in modo da alleviare l’onere che grava sulle politiche monetarie.

Inoltre, l’ascesa dei tassi di interesse a lungo termine, che riflette la percezione del nuovo corso globale, si è arrestata e anzi ha fatto notevoli passi indietro rispetto ai picchi dei primi mesi del 2017. A questa retromarcia hanno sicuramente contribuito le banche centrali, che manovrano con cautela e circospezione per rendere più morbida e graduale possibile l’uscita dalle straordinarie misure espansive ed evitare turbolenze destabilizzanti. Uscita che la FED ha ora imboccato con più risolutezza.

I tassi reali restano quasi nulli sul decennale americano e negativi su quello tedesco. Sono livelli che appaiono difficilmente conciliabili con le prospettive di solida crescita espresse dalle quotazioni azionarie (sopravvalutate al di là dell’Atlantico). Una spiegazione riunificante dei tassi reali bassi e delle azioni alte è la grande liquidità in circolazione, che è l’altra faccia degli enormi bilanci delle banche centrali. Tassi reali bassi, però, tradiscono anche dubbi sulla forza e sulla durata della ripresa.

Dubbi che si affacciano pure dietro all’andamento del prezzo del petrolio e di altre importanti materie prime, che si è rivelato debole. Sicuramente ciò è dipeso dall’evoluzione dell’offerta, in bilico tra i tagli decisi dai produttori, OPEC e non, e i progressi tecnologici che abbassano il punto di pareggio nello sfruttamento dei giacimenti americani. Altrettanto determinante è la dinamica della domanda, che è più lenta di quanto la marcata diversificazione delle fonti e le politiche di risparmio energetico giustificherebbero. 

In mancanza di una significativa riduzione delle enormi scorte, incombe il rischio di una nuova caduta del costo del greggio. Mentre la deflagrazione delle tensioni geo-politiche in Medio Oriente causerebbe un suo repentino rialzo.

Infine, tre elementi sono mutati in misura degna di nota rispetto allo scenario descritto sei mesi fa: dollaro, protezionismo e populismo. 

Il dollaro ha perso smalto e terreno, non solo nei confronti dell’euro. È l’effetto del riequilibrio della crescita mondiale, che è più sincronizzata e meno al traino degli USA, del venir meno di timori sulle valute di alcune economie emergenti, dell’intesa raggiunta a gennaio nel G20 di non usare l’arma della svalutazione, per rilanciare la propria crescita a scapito degli altri, e del recedere di aspettative di disgregazione dell’Area euro. Se tutto ciò sarà confermato, la valuta americana difficilmente tornerà sugli scudi; peraltro dal 2015 si mantiene in una banda di oscillazione molto stretta. 

Le pulsioni alla legittimazione politica del protezionismo rampante sono state confermate dalle dichiarazioni a favore del fair-trade (commercio giusto), anziché del free-trade, e dagli omissis pro-liberalizzazione ai vertici mondiali. Tuttavia, il pragmatismo ha condotto a firmare nuovi accordi, anche multilaterali, che riducono le barriere agli scambi e ora si parla di rilanciare il negoziato UE-USA sul TTIP. 

Infine, il populismo è uscito ridimensionato da tutte le tornate elettorali del 2017. Ciò non significa che abbia cessato di influenzare le politiche, non sempre negativamente; per esempio, c’è maggiore attenzione per la crescita e le questioni sociali, meno per l’austerity. 

Comunque, si è alzato il tasso di instabilità perfino in nazioni insospettabili; nel Regno Unito ci sono state due elezioni e un referendum in due anni, il parlamento è privo di maggioranza e sono probabili nuove consultazioni a breve. Ciò mantiene alta l’incertezza politica

Il rilancio dell’integrazione europea, che implica cessione di sovranità e minore nazionalismo in vista di un superiore bene comune, sarà un test cruciale. 

Nell’insieme, per la prima volta dal 2011, le previsioni sulla crescita globale vengono modificate al rialzo. Le tensioni geo-politiche e l’effettiva entità dei tagli di imposte effettivamente varati dall’Amministrazione Trump costituiscono i maggiori rischi al ribasso. 

Il CSC porta al 3,9%, dal 2,4%, la stima di aumento nel 2017 del commercio mondiale e al 3,3%, dal 2,7%, quella nel 2018. Una revisione maggiore di quella del PIL globale, che è valutato salire del 2,9% quest’anno e del 3,0% il prossimo (da 2,7% e 2,9%, rispettivamente).

Sono ritoccate all’insù le proiezioni di crescita di tutti i maggiori paesi e aree economiche. In misura più consistente per l’Area euro.

L’Italia segue a ruota. La nuova previsione del CSC per il PIL italiano è +1,3% nel 2017 (da +0,8% precedente) e +1,1% nel 2018 (da +1,0%). Due terzi del rialzo di quest’anno si devono alle più alte statistiche rilasciate dall’ISTAT; un terzo incorpora l’innalzamento ulteriore degli indicatori qualitativi che fa intravedere incrementi più robusti di quanto prima atteso nei trimestri centrali.

Il differenziale di crescita con il resto dei paesi dell’euro si dimezza: da 1,4 punti percentuali nel 2015 a 0,7 nel 2017-18. Rimane, comunque, non piccolo e allarga il divario che si è cumulato nei livelli di PIL totale e pro-capite (per entrambi quasi 18 punti percentuali dal 2000).

L’accelerazione dell’economia italiana si deve a export e investimenti.

Le esportazioni metteranno a segno nel 2017 e nel 2018 incrementi del 4,6% e del 3,9%. Le imprese si sono dimostrate rapide nel reagire all’incremento della domanda estera, con vendite che da alcuni anni continuano a salire più dei mercati di riferimento (dal 2010 +3,1% annuo contro +2,3%), guadagnando quote di mercato. Continueranno a conquistarne nel prossimo biennio.

I guadagni di quote sono ottenuti grazie all’incremento della qualità dei beni esportati: +31,3% dal 2000, secondo i calcoli del CSC, contro il +20,8% tedesco. 

Inoltre, il peso dell’export sul PIL continua a salire, sfiorando il 32% l’anno prossimo, dal 27% nel 2011. Ossia aumenta l’internazionalizzazione del Paese, frutto delle strategie aziendali e delle politiche governative e associative.

Gli investimenti hanno incominciato a risalire nel 2014. Il moto è in progressione: partito dai mezzi di trasporto, si è esteso poi ai macchinari e dall’anno scorso anche alle costruzioni. Ciascuna tipologia beneficia con intensità diversa di una serie di condizioni diventate più favorevoli.

Anzitutto, la maggiore fiducia nell’incremento della domanda futura, che è convalidata dal miglioramento dello scenario. Poi, la saturazione degli impianti, il cui utilizzo è ai massimi dal 2008. Inoltre, la ritrovata redditività, per effetto della caduta del costo delle materie prime (mentre il CLUP ha continuato a lievitare, seppure molto lentamente). Ancora, il costo del capitale è ai minimi storici. In aggiunta, la spesa pubblica in infrastrutture è stata rifinanziata e quella privata in abitazioni è stimolata dall’elevata accessibilità (raddoppiata dal 2008, secondo il CSC). Infine, il potenziamento degli ammortamenti messo in campo dalle ultime due leggi di bilancio si dimostra efficace: +3,5% il suo effetto cumulato nel 2016-18 sugli acquisti di beni strumentali (stima Banca d’Italia).

Il quadro, tuttavia, diventerà meno propizio: i margini hanno già iniziato a diminuire, specularmente alla risalita delle materie prime, e ciò erode l’autofinanziamento mentre il credito è ancora molto selettivo; i maggiori ammortamenti, nella normativa attuale, valgono per gli ordini effettuati entro la fine del 2017; nel 2018 i timori sull’esito elettorale tenderanno a rendere più prudenti le decisioni delle imprese.

A dare maggior spazio per la crescita del PIL italiano c’è stato il venir meno di importanti elementi frenanti: lo stallo del commercio mondiale a cavallo tra 2015 e 2016; la severa restrizione creditizia; la lunga e profonda caduta dell’edilizia; i consistenti interventi di riduzione del deficit pubblico. 

Riguardo ai conti pubblici, la previsione CSC non include nel 2018 la manovra necessaria a proseguire lungo il sentiero stretto tra diminuzione del disavanzo pubblico (senza far scattare l’aumento dell’IVA) e sostegno all’economia. Anche se fosse contenuta in 8 miliardi (grazie all’ulteriore flessibilità europea), essa abbasserebbe l’incremento del PIL sotto l’1%.

I consumi delle famiglie aumentano a passo limitato, benché in linea con quello dell’intera economia. Risentono dell’aumento dei prezzi che è dovuto al rincaro della bolletta energetica. Sono sostenuti dai progressi nel mercato del lavoro, in quantità e qualità, come dimostra la più alta quota di contratti a tempo indeterminato sulle nuove assunzioni, frutto delle riforme realizzate. 

Vanno, infatti, rimarcati i risultati occupazionali, che sono straordinari in sé e in relazione all’andamento dell’economia: +730mila occupati rispetto al punto di minimo toccato nella seconda metà del 2013, +3,3% (+2,6% il PIL).

Non bisogna, però, dimenticare né i 7,7 milioni di persone cui manca il lavoro, in tutto o in parte, né l’alta disoccupazione di lunga durata (ossia da almeno dodici mesi, quasi il 60% del totale) né l’elevata disoccupazione giovanile, che sta alimentando una forte emigrazione dall’Italia all’estero e dal Sud al Nord. 

L’aumento dell’inflazione è uno scalino legato al peggioramento delle ragioni di scambio. Le dinamiche retributive sono moderate e seguono, più che la debolezza del mercato del lavoro, i meccanismi contrattati di aggancio ai prezzi al consumo. Nel biennio 2017-18 le retribuzioni reali arretrano dello 0,5%, dopo il +1,4% cumulato nel 2013-16.

Il debito pubblico in rapporto al PIL continua a non scendere: 133,2% nel 2017 (da 132,6%) e 133,7% nel 2018. La causa principale sta nell’incremento nominale del denominatore che è molto più basso del costo medio del debito, in presenza di un saldo primario positivo e pari a quello tedesco.

L’ampio scarto tra il tasso medio sulle nuove emissioni e il tasso implicito sullo stock di titoli pubblici italiani suggerisce che non sarà immediato il rischio di una maggiore spesa per interessi dopo il cambio della politica BCE, che peraltro non è imminente.

La maggiore crescita è la chiave di volta anche per abbassare il debito, oltre che, e soprattutto, per innalzare il benessere e ridurre la povertà. Perciò servono riforme strutturali e politiche di bilancio che promuovano gli investimenti e abbattano la tassazione del lavoro. In questo modo si otterrebbero maggiore flessibilità in sede europea e sguardo benevolo dai mercati. 

Lo scacchiere su cui giocare la partita dello sviluppo italiano non è però solamente quello domestico. L’Unione europea è un teatro ben più vasto e con una posta in gioco ancora superiore, che va molto al di là dell’economia e investe i suoi stessi valori fondanti: democrazia, pace, libertà, sicurezza, solidarietà.

Tutti beni pubblici che l’Europa, in quanto unita, è riuscita a garantire nei passati settant’anni a una popolazione sempre più numerosa, per la crescita demografica e l’allargamento dei suoi confini. Insieme è molto aumentato il benessere economico, utilizzato dai padri fondatori come collante: la convenienza per superare barriere culturali e divisioni storiche. 

Un collante che si rivela meno potente oggi, di fronte alle paure della globalizzazione e delle nuove tecnologie e al disincanto generato dagli effetti della crisi, che nutrono nazionalismi e chiusure. Le ragioni della maggiore integrazione vanno allora ricercate nuovamente proprio nei valori che stanno più a cuore ai cittadini. 

Per la prima volta dal suo avvio, il progetto europeo è di fronte a un bivio: può andare avanti, con maggiore integrazione e messa in comune di sovranità in nuovi campi, o può retrocedere, tornando indietro nelle conquiste pazientemente e lungamente costruite. La Brexit fa comprendere quanto la seconda possibilità non sia affatto un’ipotesi di scuola; lo hanno ben capito gli elettori degli altri paesi che hanno resistito alle sirene sovraniste. E, forse, gli stessi inglesi.

Nella parte speciale dedicata all’Europa il CSC ha, anzitutto, messo a fuoco la dimensione dell’UE, rispetto alle altre potenze mondiali (USA, Cina, India, Russia). Dal confronto emergono la grandezza dell’economia, che ha nel mercato unico il pilastro portante, ma anche lo stallo della riduzione del gap con gli Stati Uniti e la divergenza tra paesi. 

In secondo luogo, è evidenziata l’accresciuta disaffezione verso il progetto europeo e le sue cause. Sono poi spiegati i benefici ottenuti dall’Unione e quelli che si potrebbero ottenere dal completamento del progetto di integrazione come già avviato (unione bancaria e dei capitali, completamento del mercato unico, infrastrutture, energia). Ancora, viene raccontata la reazione europea di fronte alle molteplici crisi (economica, migratoria, terroristica), che ha evidenziato le pecche dell’architettura istituzionale. 

Da questa analisi scaturiscono le proposte, illustrate anche in termini di efficienza e di efficacia. Più Europa è meglio nel controllo delle frontiere, nella politica migratoria, nella difesa, nella politica estera e nella diplomazia, nella cooperazione allo sviluppo, nella sicurezza, nella creazione di una politica di bilancio comune per l’Eurozona, nella ricerca e nella politica industriale, nel sostegno agli investimenti. 

Alcune di queste nuove integrazioni potrebbero essere conseguite a parità di trattati, altre ne richiederebbero la revisione, senza dimenticare la necessità, un giorno, di metter mano a una carta costituzionale. Poiché non tutti i paesi sono disponibili a condividere ulteriori fette di sovranità (in tal senso l’allargamento è andato a discapito dell’approfondimento dell’Unione), si dovrebbe partire da quanti sono pronti a farlo. D’altra parte, già oggi la realtà è di un’Europa a cerchi olimpici. Purché non diventi un’Europa alla carta, basata sull’esclusiva convenienza che mette da parte la solidarietà, componente essenziale di ogni comunità.

Infine, per riavvicinare i cittadini alle istituzioni occorre colmare il vuoto di democrazia, reale o percepito. Partendo dall’elezione diretta del Presidente della Commissione europea, che dovrebbe essere anche il Presidente del Consiglio europeo. 

La disunione europea non risolverebbe nessuno dei problemi che i cittadini sperimentano o temono. Semmai li aggraverebbe perché sono di portata tale che nessuno dei 27 paesi, singolarmente, è in grado di affrontare efficacemente. 

Tuttavia, il muro di diffidenza e sfiducia reciproche che la crisi e la sua gestione hanno lasciato in eredità va superato non sulla base della demonizzazione del tornare a stare ciascuno per conto suo, ma della chiara spiegazione dei vantaggi dell’Europa unita, senza retorica e concretamente. Solo così l’adesione al progetto tornerà decisa e convinta.

Il primo capitolo del report è disponibile al seguente link: capitolo primo.

Le slide di presentazione dell'evento sono disponibili ai seguenti link: Lorenzo ForniLuca Paolazzi, Francesco Saraceno.

 

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